Riprendo volentieri un argomento trattato periodicamente e da anni oggetto di dibattiti: quale densità per i vigneti di qualità?
Partirei da una premessa, cioè come sempre dalla storia, anche se è fuori dubbio che il rispetto della tradizione non porti necessariamente al progresso.
In ogni zona la vite è stata coltivata con tecniche diverse, in realtà la viticoltura specializzata è arrivata in un’ epoca relativamente recente e in alcune zone la vite si coltiva ancora “maritata” ad altre piante, dunque le valutazioni sulla densità di impianto della vite nei secoli passati sono relative.
Io comunque ricordo vecchi vigneti coltivati a densità altissime, ma anche altri a densità basse.
Personalmente ho coltivato per 3 anni un vigneto piantato a 12.500 ceppi l’ettaro, peraltro il vigneto all’epoca aveva quasi 40 anni.
Sono sicuro che quel vigneto stava bene così, aveva trovato il suo equilibrio a quella densità.
Credere che per fare un buon vino la vigna debba essere coltivata a densità estreme è una semplificazione e come molte semplificazioni di fatto è una banalizzazione.
Molti insegnano che: alta densità= alta qualità e da qui a fare a gara a chi ha il vigneto con più ceppi per ettaro il passo è breve.
Infatti la sfida è in corso, nella foto in alto il vigneto a più alta densità del mondo, almeno fino al prossimo che vorrà superare questo limite già esagerato, infatti si tratta di un vigneto ubicato a Montalcino di proprietà di Francesco Illy nell’azienda Podere Le Ripi, che ha ben 62.500 viti l’ettaro.
Anche io mi sono vantato dell’alta densità del vigneto che ho coltivato, lo ammetto, ma cerchiamo di fare chiarezza.
Sicuramente, entro certi limiti, una resa bassa per ceppo aiuta ad avere uve di qualità.
Ogni zona, suolo, microclima, riesce a dare risultati eccellenti ad una certa densità, che non è uguale per tutti.
Mi viene in mente un vino mito, il Trebbiano d’Abruzzo di Valentini, da molti non certo a torto considerato il miglior vino bianco d’Italia. Ecco, il vigneto del Trebbiano Valentini è coltivato a 1.600 ceppi l’ettaro.
D’altronde non è difficile immaginare che un impianto troppo fitto comporti più svantaggi che vantaggi, cerchiamo di elencarli:
• competizione per la luce, un ingrediente fondamentale
• competizione per l’acqua, fatto che in annate siccitose non è certo trascurabile
• scomodità nella coltivazione
• e magari anche competizione nella ricerca da parte delle radici capillari dei nutrimenti
Il punto è che non esiste un modello standard valido ovunque.
Come spesso accade in Italia si balza agilmente da un estremo ad un altro e come già successo con l’utilizzo dei “legni” piccoli, certamente accadrà anche con i sesti di impianto.
Suppongo che critici che hanno vantato per anni le coltivazioni a 10 mila o più viti per ettaro si stiano sperticando in lodi agli impianti larghissimi giustificando la scelta con il fine di assecondare meglio lo sviluppo naturale della pianta e ridurre le manipolazioni della chioma.
In realtà io la vedo in maniera molto più semplice, credo che i parametri in campo siano numerosissimi e che la via alla qualità non sia una sola.
Proviamo ad analizzare un po’ di dati prima di sparare sentenze in un senso o nell’altro.
Borgogna: nei Grand cru la densità media è di 10 mila ceppi l’ettaro, possiamo dire molto elevata.
Il suolo può essere definito calcareo-marnoso, ricco di ferro, ciottoloso.
Clos de Lambray addirittura arriva a 12.000 ceppi l’ettaro.
Sulla qualità vorrei sentire se qualcuno abbia dei dubbi. Io personalmente non ne ho. Dunque a 12 mila viti l’ettaro si produce qualità: è un dato di fatto.
Mi piacerebbe che qualcuno mi venisse a dire che se gli impianti fossero più radi la qualità sarebbe più alta, eventualità non da escludere, ma mi domando se per esempio il proprietario di un vigneto a Musigny se la sentirebbe di diradare la sua vigna per cercare di dimostrare che forse un giorno il suo vino sarebbe migliore.
Chateau d’Yquem: 7 mila ceppi l’ettaro.
I suoli sono ghiaie quaternarie depositate dalla Garonna sulla
sua riva sinistra.
Chateau Petrus : 8 mila ceppi l’ettaro, su argille.
Monprivato di Giuseppe Mascarello è a 4.000 ceppi l’ettaro.
Di Valentini e dei 1.600 ceppi l’ettaro ho già parlato e nella foto si vede il vigneto a bassa densità purtroppo gravemente danneggiato dalla neve a novembre scorso.
In Côte Rôtie spesso si arriva a 10 mila viti per ettaro.
Masseto è coltivato a 4.000 ceppi l’ettaro.
Sfido chiunque a dire che i vini che ho elencato abbiano una qualità discutibile o che abbiano sesti d’impianto omogenei.
Un importante e stimato agronomo ha sentenziato che:
Perché una vite possa vivere a lungo bisogna darle la possibilità di crescere lentamente e ramificare, la forma di una pianta non può restare uguale per cinquant’anni , e se cerchiamo di mantenerla tale con tagli brutali ne accorciamo la vita.
Detto così fa impressione e sembra impossibile da contraddire, eppure in Borgogna e non solo certamente esistono vigneti di almeno 50 anni coltivati ad alta o altissima densità.
Nella seconda immagine possiamo vedere un vigneto sull’Etna di 150 anni coltivato a 9000 ceppi l’ettaro.
Alcune autorevoli ricerche sostengono che esista un rapporto ottimale tra superficie fogliare e uva prodotta e che tale rapporto sia di 1 a 1 tra metri quadrati di superficie fogliare e kg di uva.
Per maggiore precisione esiste una superficie fogliare totale e una superficie fogliare esposta, per questo è opportuno che le foglie siano irraggiate dalla luce per il maggior tempo possibile.
Per esempio in un vigneto messo a dimora in direzione ovest-est alcune parti del filare rimangono esposte alla luce per un numero di ore limitato e quindi producono meno materiale fotosintetizzato.
L’entità di queste superfici meno efficienti dipende dalla distanza tra le file e dell’altezza delle viti stesse, oltre che dalla latitudine.
La distanza tra le file e l’altezza delle stesse determinerebbero l’ombreggiamento reciproco di una fila sull’altra e quindi la effettiva superficie fogliare esposta, se il vigneto fosse in pianura, ma spesso i vigneti sono in collina nei versanti meglio esposti e questo comporta un effetto decisivo.
Non dimentichiamo anche il parametro latitudine, dato che più basso è il sole sull’orizzonte maggiore sarà l’effetto ombreggiante dell’altezza delle file.
Evidentemente nelle aree viticole ubicate a latitudini maggiori le forme di allevamento sono forzatamente più ridotte e sfruttano soprattutto le aree collinari.
Per l’opposta ragione, a latitudini minori, la notevole esposizione al sole che spesso coincide anche con una maggiore aridità, le forme di allevamento più adatte sono quelle ad alberello per difendere la vite dall’eccessiva traspirazione e dall’importante irraggiamento che determinano fenomeni di fotorespirazione.
La sensazione è che quindi non sia il numero di ceppi a fare la differenza, ma questo rapporto di 1 a 1.
Anche l’attendibilità di queste ricerche va verificata con l’analisi di una mole di dati scientificamente rilevante.
Comunque se questa ricerca fosse attendibile, la prima cosa che mi verrebbe in mente sarebbe che si possa mantenere abbastanza costante questo rapporto ed anche la quantità di uva prodotta per ettaro anche variando il numero di ceppi, con forse un leggero vantaggio per gli impianti più fitti, ma che si possa comunque in gran parte compensare.
Ribadisco che i parametri in campo sono comunque moltissimi e non si può dimenticare l’importanza del portinnesto, che su impianti più radi deve essere più vigoroso a parità di altri parametri come il suolo, la piovosità media ecc.
Dopo quest’ubriacatura di dati credo che vada fatta un’ulteriore valutazione.
La vite, come tutti gli esseri viventi, cerca l’equilibrio nell’ambiente in cui si trova, sviluppa le proprie difese e mette in campo le proprie potenzialità in funzione dell’habitat.
L’importante è che questo equilibrio lo trovi e quando lo trova produca uve in grado di dare grandi vini.
Io tendo a diffidare di chi sentenzia verdetti assoluti, e senza un’attenta analisi dei dati.
L’analisi dei dati dice che affermazioni pseudoscientifiche che peraltro portano a conclusioni opposte si classificano da sole come non scientifiche.
Godiamoci i grandi vini, se vogliamo anche studiandone i vari parametri produttivi, ma limitiamoci ad osservarli e eventualmente a paragonarli con quelli di altri grandi vini, per trarre conclusioni c’è sempre tempo.
Bello e sul pezzo, come sempre. Posso aggiungere un po’ di caos citando a braccio un libro di un vigneron borgognone dei primi dell’800, di cui non ricordo il nome ma che recupererò senz’altro. Il signore sosteneva che da quando in Borgogna si era diffusa la moda di portare gli impianti a 10000 pieds per ettaro la qualità dei vini si era sensibilmente abbassata. Io ingenuamente pensavo che prima fossero più larghi e invece no. Prima si coltivavano a 20.000 pieds per ettaro. La cosa fa scopa con una testimonianza che mi viene da Arnaldo Spitaleri di Adrano (Catania): Arnaldo mi dice che un suo tris(o quadris)avolo, senatore del primo governo del Regno d’Italia e grande appassionato di vini francesi, quando decise di investire a vigneti le sue terre sul versante occidentale del vulcano, coinvolse alcuni enologi ed agronomi della scuola di Beaune, i quali lo consigliarono caldamente di piantare il Pinot Nero (ovviamente sopra i 1000 metri di altitudine) a 20000 ceppi ettaro ” come si faceva in Borgogna una volta “(sic) .
Belle storie Fabio! Ecco così i sostenitori, ormai numerosissimi perché adesso è trendy, delle densità minori, si strapperanno le vesti. Io con il mio Montepulciano a 12.500 ceppi per ettaro ero quasi in linea con i grandi Bourgogne!
appunto. E il vino era molto buono !
ecco il libro; vivamente consigliato.
VIGNE ET VINIFICATION EN COTE D’OR
par Alfred de Vergnette de Lamotte
EDITION LACOUR
http://www.editions-lacour.com
Lo cerco così me lo leggo. Grazie del suggerimento Fabio, sono un divoratore di questo tipo di testi!
E’ fantastico quando se la prende con Guyot e con il suo nuovo sistema di allevamento, che sarebbe la causa della perdita di equilibrio vegeto produttivo della pianta.
Credo che Guyot abbia fatto bene alla viticoltura
Non dubito che Guyot abbia fatto bene alla viticoltura. Infatti poi ha vinto il suo metodo e non i metodi di allevamento cui fa riferimento Vergnette de Lamotte. Cionondimeno, è importante leggere questo autore perché si capisce che la tradizione non è un monolite, ma una stratificazione molto complessa di innumerevoli metodi e soluzioni. Per il suo gusto il nuovo sistema di allevamento a sesti larghi (10.000 ceppi/ha) cambiava in peggio il profilo dei vini. Bello leggere il testo. “Pour la production d’un bon vin, il est done de la plus haute importance que nous ayons un fruit dont les grains n’atteignent pas un fort développement. Ce résultat, nous l’obtenons avee notre vieux système de culture. En sera-t-il de même avec le système que recommande et propage aujourd’hui le docteur Guyot ? Les raisins que porte la branche à fruits de ses vignes sont plus forts que les notres. D’ailleurs, si nous avons de à 20000 à 24000 ceps à l’hectare dans les vignes de la Bourgogne, celles du docteur Guyot n’en ont que 10000 ; pour le meme produit, chaque cep devra donc donner deux fois plus de fruits que les notres. La composition du suc sera-telle la meme ? Nous disons non….” e ancora ” Nous répéterons donc que, en tant qu’il s’agit de la production des grands vins, nous devons mettre beaucoup de réserve dans nos essais de réforme. Les conseils du docteur Guyot nous semblent done surtout à l’adresse des producteurs de vins communs “
Fabio grazie per il bellissimo contributo, purtroppo per una serie di vicissitudini non ho ancora avuto modo di procurarmi il libro, comunque le anticipazioni che dai sono golosissime e carburante prezioso per la discussione sui sesti d’impianto. A volte guardiamo troppo da vicino i problemi e rischiamo di perdere la visione d’insieme.
Si aggiunga, caro Sergio, che all’epoca di De Lamotte la resa media per ettaro per i vini fini in Borgogna era di circa 10-15 Hl ettaro, quindi molto più bassa di quella attuale che si attesta attorno a 20-25 Hl ettaro.
Molto interessante. Certo se ne deduce una resa per ceppo davvero molto contenuta, mi domando anche come potevano riuscire a limitarla tanto. Questa testimonianza non fa altro che dare ulteriore linfa alla teoria secondo cui la qualità può essere perseguita con metodi molto eterogenei.